”CUCS, visti da qui….”

06-01-2017 03:08 22 C.

Articolo scritto da un blogger romanista su iogiocopulito.it.
Che condividiate o meno la mentalità ultra il pezzo è, per certi versi, oltre che composto mettendo sul piatto i sentimenti (che non guasta mai…), anche un bel riconoscimento ai nostri ultras nonche’ un bell’affresco di certi anni, di come veniva vissuta la curva e di quello che e’ diventata adesso

 

 

STORIA DI UN BIGLIETTO: ATALANTA-ROMA, LA PARTITA CHE VOGLIONO FAR MORIRE
DI SIMONE MELONI

“Cucs, visti da qua siete ancora più terroni”. Alle menti proibizioniste e bigotte che popolano il football al giorno d’oggi potrebbe sembrare l’ennesima idea sgarbata di quelle bestie manigolde con la sciarpa al collo. Ai più addentrati e amanti del mondo curvaiolo invece risuonerà soave come un concerto di Mozart. La stagione 1987/1988 vede l’Atalanta (retrocessa l’anno prima in Serie B) prender parte alla Coppa delle Coppe, in virtù della finale di Coppa Italia persa l’anno precedente con il Napoli Campione d’Italia. Arriverà fino alla semifinale dove il sogno verrà infranto dai belgi del Mechelen, futuri vincitori. E questo striscione, esposto all’esordio contro i gallesi del Merthyr Tydfil, sarà uno dei simboli di quella competizione.

Il Cucs (Commando Ultrà Curva Sud) in quegli anni è il cuore del tifo romanista. Uno dei gruppi che in Italia fanno scuola. Chi oggi ha qualche capello bianco e sa dilettare i propri interlocutori con storie dell’epoca, vi racconterà menadito del gemellaggio esistente tra le due fazioni a inizio anni ottanta. Perché, malgrado ciò che la morale comune vuol far passare, le curve degli stadi sono stati (e in parte lo sono tutt’oggi) dei veri e propri poli in grado di aggregare e assembrare persone di ogni estrazione sociale, politica e geografica. Posti così profondi e variegati da creare interazioni impensabili, favorite comunque da una società paradossalmente più aperta e vogliosa di scoprire ciò che la circondava. “Avevamo poco, ma avevamo tutto”, mi raccontò una decina di anni fa un signore sulla quarantina, in un anonimo Roma-Messina. Aveva probabilmente ragione. Lui ricordava con simpatia un altro striscione, della Sud, sempre negli anni ’80. “Atalantino Idiota Del Settentrione”, con le iniziali a formare l’acronimo AIDS. Oggi sarebbero scattate multe e chiusure dei settori, allora veniva interpretato per ciò che era: uno striscione fine a se stesso, peraltro inserito perfettamente in un contesto di profonda tensione sociopolitica tra Nord e Sud. Ci vorrebbe meno moralismo e più elasticità mentale alle volte. Ma si sa, nel 2016 i click chiamano e i lettori non comprano giornali che non sanno riportare titoloni e articoloni sensazionalistici pure per descrivere il più stupido degli eventi.

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Atalanta-Roma non è una partita qualunque. Nerazzurro e giallorosso sono bande cromatiche che già di loro si contrastano aspramente. E noi che siamo malati quelle maglie ce le figuriamo sempre nella fanghiglia della Brumana o sotto un diluvio all’Olimpico, in un contrasto cruento tra Nela e Stromberg. Sarebbe stato bello affrontare il suo aspetto antropologico l’indomani della sfida di campionato dello scorso novembre. Ma abbiamo dovuto analizzare e smontare in fretta e furia buona parte delle inesattezze riportate a corollario delle tensioni registrate al termine della gara. Un peccato, perché come sempre in Italia si vuole drammatizzare, terrorizzare e distogliere l’attenzione invece che fare cronaca, prevenire, riflettere e raccontare storie che hanno reso la gioventù di tante persone migliore e ricca di aneddoti. Narrare, per il sottoscritto, rappresenta l’aspetto più interessante e formativo della propria professione. Perché dà l’opportunità di conoscere e abbattere paletti che, giocoforza, le nostre menti erigono di concerto con le storture offerte dal circo mediatico e dall’opinione pubblica.

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Eppure Atalanta-Roma non è mai una gara qualunque. Perché nella mediocrità in cui l’italico calcio si è ormai adagiato, rappresenta quella scintilla in grado di farti tornare ventenne almeno per novanta minuti. Al netto di divieti, limitazioni e montatura mediatica. Sia chiaro. Il mio esordio all’Atleti Azzurri d’Italia ebbe un sapore particolare. Stagione 2004/2005. Quella dei cinque allenatori, per i romanisti. Quella di una folle ricorsa alla salvezza nel girone di ritorno, per gli atalantini. Uno scontro di fine stagione che va in scena il 22 maggio. Due modi così diversi di approcciarsi al calcio. Eppure così simili. La metropoli turbolenta, passionale, non vincente ma fascinosa contro la provincia sanguigna, riservata, schiva ma dal cuore grande. Sarà anche per questo che romani e bergamaschi non si amano. In ognuno di loro c’è un pizzico di meridionalità e settentrionalità. Gli opposti che si attraggono e allo stesso tempo si respingono.

La sera prima si gioca Empoli-Genoa. Quel Genoa che a fine stagione verrà promosso in A ma sarà successivamente retrocesso in C per lo scandalo della “valigetta” di Preziosi nell’ultima sfida col Venezia. Si parte prima alla volta del Castellani, per puro spirito voyerista, e poi, a notte inoltrata, Firenze Campo Marte mi aspetta come fondamentale nodo di scambio. Là transita il treno dei tifosi diretto a Milano. Là comincia la trasferta che attendevo da una settimana. Diciassette anni e tanta voglia di vedere, fare e conoscere. Come fosse oggi ricordo la frenesia con cui il mercoledì saltai scuola per andare a prendere il biglietto. 10 Euro erano sufficienti all’epoca. Nessun documento e nessuna tessera. Semplicemente “un biglietto per il settore ospiti, grazie”. E poi l’ansia successiva. L’attesa quasi spasmodica. Il pensiero che andava sempre e comunque a Bergamo. Perché il calcio è una religione e come tale l’avvicinarsi della liturgia rappresenta il momento più importante della settimana.

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E i chilometri che passavano di stazione in stazione, con quell’odore di ferraglia che ogni tanto si impadroniva dei vagoni, annunciava che stavamo arrivando. Bergamo per noi era come andare in un altro Paese. Per chi era abituato a quelle trasferte e le aveva vissute due decadi prima non c’era quasi emozione. Ma per me il solo fatto di poter entrare in una città che ci era ostile in tutte le sue componenti e che calcisticamente voleva farci ogni tipo di sgambetto era una vera e propria palpitazione. Ho sempre rispettato gli atalantini. Una tifoseria fiera, tosta e verace. Un popolo dal quale molti dovrebbero prendere spunto. Molti di quelli che si chiedono come si faccia a tifare un club che non vince mai. Molti di quelli che non capiscono quanto il pallone sia identità territoriale, campanilismo e sfottò. E cosa c’è di male? Come quei vecchi che dai balconi e dalle strade ci lanciavano ogni tipo di offesa. Come quello stadio stracolmo in ogni ordine di posto. Deluso a fine partita, per la retrocessione sancita dallo 0-1 maturato sul terreno di gioco, ma fieri dei propri colori. Il pubblico di Bergamo, come quello di Roma, è stato spesso demonizzato. Dipinto a priori. Come quello di Roma a volte ha esagerato, compiuto degli eccessi, tuttavia ne ha sempre pagato le conseguenze. Il pubblico orobico è il cuore dell’Atalanta. È ruvido, inospitale e profondamente attaccato a tutto quello che riguarda la Dea. Andrebbe ricordato che se la violenza è un fenomeno da condannare sempre e comunque, il folklore è un patrimonio dei nostri stadi. Sebbene negli ultimi anni si sia fatto di tutto per cancellarlo e annullarlo.

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Il gol di Cassano, l’esultanza, gli sfottò, l’acre odore delle torce e dei fumogeni e il ritorno in treno con tanti ragazzi che negli occhi avevano la mia stessa emozione. Il tifo incessante degli atalantini, la tensione del settore ospiti che si tagliava a fette e l’unisono di quei 700 cuori (all’epoca il settore ospiti era ancora confinato nell’angoletto tra Curva Sud e Tribuna Centrale) impegnati a sostenere una squadra sgangherata, che però non avevano abbandonato, anzi si erano stretti ancor più attorno ad essa. Ricordo tutto di quella giornata. Persino la nottata passata a Piazza del Popolo per ingannare il tempo nell’attesa del ritorno a casa dei miei. Per questo tornare a vedere un Atalanta-Roma dopo undici anni, stavolta dalla tribuna stampa, ha rappresentato un qualcosa di diverso. Emozionante lo stesso. Ma profondamente differente da raccontare. Con l’età che avanza la razionalità ha la meglio su molti sentimenti. E soprattutto l’idiosincrasia verso qualsiasi tipo di divieto e repressione aumenta la ragione nell’assistere a questo genere di sfide. Sappiamo che non dureranno a vita. Sappiamo, noi calciofili d’essai, che siamo destinati a vedere morire i nostri punti cardine. Perché siamo fuori luogo. Demodé direbbero quelli bravi. Perché se proviamo a dire che un Atalanta-Roma con i fumogeni, i cori ostili e le esultanze velenose è la quintessenza del calcio qualcuno è pronto a etichettarci come “ultrà ripuliti” o “fiancheggiatori dei violenti”. Perché, se da romani, ridiamo di gusto alla coreografia di qualche stagione fa della Nord, quella che con tanti piccoli carri armati e la frase “Vamos Tanque” sbeffeggiava le polemiche nate in estate per il celebre carrarmato guidato da Migliaccio che “investiva” delle macchine romaniste e bresciane, siamo dei “beceri che foraggiano i teppisti”. Suvvia, perché in questo Paese non si riesce mai a scernere la goliardia, magari anche esasperata, dalla vera violenza o dai comportamenti davvero da bollare?

Forse perché tutto ciò costituisce una grande forma di Eco (in maiuscolo non a caso). Forse perché chiudere settori popolari qualche giorno prima, punendo senza motivo chi stava per organizzare la coreografia significativa e riaprirli poi per il sacrosanto risentimento popolare (è successo lo scorso anno in occasione di Atalanta-Chievo quando la Nord aveva organizzato una giornata in memoria di Yara Gambirasio) fa parte di quel disegno volto a criminalizzare e indebolire ogni forma di aggregazione. Soprattutto se viene da uno stadio. Soprattutto se, come a Bergamo, riesce a creare eventi ludici che coinvolgono l’intera città (Festa della Dea). Allora si preferisce colpire nel mucchio. Si preferisce mettere delle barriere in mezzo a una curva, rendere uno stadio pari a un lager e vietare qualsiasi forma di tifo pena sanzione pecuniaria, accusando i tifosi di ogni amenità possibile. Perché Atalanta-Roma deve morire.

“L’Atalanta è magia, la Nord è follia!”. Brigate Nerazzurre

“La Roma è una fede, gli ultrà i suoi profeti”. CUCS Roma

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By Staff di Atalantini.com


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