Giovedì sera

09-11-2017 04:44 13 C.

Mi hanno chiesto se ci sono venuto per comprare cavalli.
Non ho visto nessuna fiera e nessuna indicazione in questo senso. Però più di una persona, nella piccola pensione dove sono alloggiato, mi ha fatto la stessa domanda.
Comunque, non ci sono venuto per i cavalli.
Mi occupo d’altro. E in Normandia non ci sono venuto per i cavalli.

Questo ho cercato di spiegare ad Emilie, la ragazza della reception che sembrava volermi fare il terzo grado.
Avrà almeno vent’anni anni meno di me. Per questo escludo che si sia affezionata al mio apparire un uomo di successo venuto da lontano. Una giacca e una cravatta a volte fanno miracoli, ma escludo che si sdolcini con lo scopo di riempire qualche ora in stretta, fisicamente parlando, compagnia.

Non mi piace Emilie. Nonostante i suoi poco meno di trent’anni e il fisico regolare e profumato come una rosa, m’infastidisce la sua voglia di stabilire un contatto meno formale e quasi compiacente.
O forse non ho assolutamente voglia di infilarmi in un ginepraio che mi possa compromettere la visione della partita.
Già il lavoro mi ha impedito di spostarmi verso i lidi ciprioti, al caldo di un autunno particolare, ci manca solo che metta a rischio la visione della gara per una bottiglia di Sauvignon, senza avere nemmeno la certezza che possa avere un seguito.
Anzi, la bottiglia di Sauvignon me la porto in camera. Legittima, e unica accettabile, compagnia per la partita.

Deauville è una cittadina di un altro tempo. Belle Epoque, come dicono da queste parti. Solo Epoque, direi. Un tentativo estremo di rimanere attaccati ad un passato, che per altro non ha poi detto più di tanto, se non di signore con l’ombrellino e di ricconi in decadenza con l’illusione che il mondo girasse attorno a loro.
Però, il profumo del pesce appena sbarcato dai pescherecci, arenati lungo le sponde del porto a causa della bassa marea, è autentico e soprattutto non è vincolato a nessun tempo e a nessuna Epoque.
Non trovo nulla, sulle banali bancarelle dei souvenir, da comprare come regalo a Charo. Nemmeno per Xavi e Pablo.
Al Tio ho già pensato. Due formaggi di vacca, tipici dell’alta Normandia e una bottiglia di Calvados.
Alla fine, a Charo ho preso qualche vasetto di sale di queste latitudini e per i ragazzi un paio di magliette.

La mia camera è spartana. Poco curata, com’è tipico dei francesi e dà proprio sul mercato del pesce di Trouville, la parte plebea del binomio Deauville-Trouville.
Giusto sotto la mia finestra c’è l’insegna al neon rosso della Brasserie che sta al piano terra dell’hotel. In fondo, l’insegna gialla e celeste dell’imponente Casino.
Mi dicono che la Brasserie resterà aperta fino a mezzanotte. Bene. Anche il problema della cena è risolto. Odio cenare prima della partita.

Ho spento tutte le luci. Sdraiato sul letto, con il computer sulle gambe sintonizzato sulla partita e il sauvignon sul comodino, a fianco del telefono. Il calice di cristallo me lo sono fatto dare da Emilie, che me l’ha infilato in mano furtivamente, con un’adolescenziale e inutile complicità.
Odio bere il vino dai bicchieri di plastica che si trovano nelle camere d’albergo.

Ho una strana sensazione. Mi sento stanco. Così come mi sembravano stanchi gli occhi del mister nella conferenza stampa del giorno prima. E come mi sembrano stanchi i volti dei ragazzi schierati durante la musica, nemmeno troppo bella, che fa da preludio alle partite di Europa League.
Gli unici che non mi sembrano stanchi sono i tifosi che hanno raggiunto le coste terse e tiepide di Nicosia.

Abbasso il volume. Anzi lo spengo. E’ molto bello il silenzio, quando dalle finestre penetrano, attraverso le tende leggere, le luci dei neon di una via che millanta di essere piena di vita e che invece ospita solo dei temerari, che al giovedì sera si azzardano a cenare fuori.

Sono un po’ teso. Siamo abituati ad attribuire al calcio regole matematiche. Il più forte deve per forza vincere. Il più debole perdere. Quello più sconosciuto e che viene da più lontano deve essere più scarso, e spesso, più simpatico. Mentre quello che porta un nome, deve essere solitamente più forte ed anche antipatico. In fondo a tutto questo, tiriamo una riga e distribuiamo punti.
Salvo poi essere smentiti, fin troppo spesso, e ci si attacca ad altre regole più o meno matematiche come: la palla è rotonda, nel calcio non si sa mai, è solo una questione di testa.

Questi ciprioti, sparigliano le carte della matematica. Non sono i più scarsi e non sono nemmeno simpatici.
Rognosi, bellicosi, tatticamente scorbutici.
E noi siamo stanchi. Stanchi dentro.

Dopo il gol di Ilicic non sopporto più il silenzio. Metto dal telefono, che tengo di fianco al Sauvignon, già a metà, la musica di Keith Jarret. Tanto per farmi compagnia.
La partita scorre. La stanchezza mi appesantisce. Ci appesantisce.

Ed eccoli, i rognosi, bellicosi e nemmeno simpatici che si rotolano per terra per un gol piovuto dal cielo a tempo scaduto.
Mi domando cosa si rotolino a fare. Cosa si esaltino a fare. Per un gol che non ha dato la vittoria e che ha solo allungato l’agonia. Quasi penso che lo facciano solo per ridersela dell’Atalanta che si è vista sbriciolare sul filo di lana la matematica, eccola di nuovo, qualificazione. Tra l’altro meritata.

Ma, soprattutto, mi domando perché la bottiglia di Sauvignon sia già finita.
Scendo nella Brasserie.
Non ho voglia di mangiare. Sono arrabbiato, forse. Deluso, di certo.

Faccio due passi lungo la via dalle insegne illuminate. Lungo la sponda del fiume. Lungo il mercato permanente del pesce. Chiuso, ma che rilascia nell’aria il suo profumo vecchio di secoli.
Scendo fino al Casino. Fino alla spiaggia buia. Per sentire il russare silenzioso dell’oceano.

Non ci sono venuto per comprare cavalli.

Mi risveglio che l’alba deve ancora nascere.

E nel letto non sono solo.

Rodrigo Dìaz

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By Staff di Atalantini.com


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