Cosa ci lascia Davide Astori

06-03-2018 14:01 2 C.

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L’importanza umana e simbolica del capitano della Fiorentina.

Firenze, Campo di Marte. Stadio Artemio Franchi, Piazzale dei Campioni del ’56, viale Fanti. Lo Scheggi, i bar Marisa e Maratona. Non esiste in città zona più viola di questo spicchio del nordest fiorentino. Sono luoghi che calcisticamente parlando trasudano storia, e soprattutto storie: le accoglienze trionfali e le contestazioni, i cori bollenti e i borbottii glaciali. Camminare per questi luoghi porta sempre con sé un significato per chi li ha già vissuti, assaporati, sperimentati.

Ieri, anche se avrei davvero preferito evitarlo, ho trascorso il pomeriggio precisamente in quell’area. Dai cancelli della tribuna coperta a quelli del centro sportivo, in un andirivieni di smarrimento ed insolito disagio. Davide Astori, il capitano della Fiorentina, non c’era più. L’atmosfera della fiorentinità è contagiosa nella gioia e nel dolore: gli occhi di chi mi stava accanto, di chi sfioravo, di chi incrociavo, parlavano la stessa lingua, lo stesso dialetto, in un certo senso. In centinaia si sono radunati attorno agli striscioni commemorativi, alle sciarpe deposte in memoria, ai disegni dei bambini, alle foto, ai fiori tutti sempre lilla. Tutti guardavano e nessuno parlava. Ne ho avvicinati a decine per condividere un ricordo, una testimonianza, uno dei suoi sorrisi, ma nei loro sguardi leggevo continuamente necessità di silenzio.

Eppure erano lì tutti insieme a condividere la sofferenza del momento. Veniva da chiedersi, così su due piedi, se quelle centinaia di fiorentini in quel preciso luogo e in quel preciso momento non fossero qualcosa in più di semplici tifosi. Perché sì, il concetto di tifo comprende cose di questo tipo – e sono cose di questo tipo che lo descrivono – ma talvolta credo che il termine più giusto sia comunità. Gli occhi stanchi, le posture imbarazzate, le movenze sconfortate. Elementi in comune tra persone che non avevano idea di cosa fare o dove andare, ma che sapevano sicuramente che stare lì, idealmente al fianco del capitano, era ciò che più si avvicinava al giusto. Ricordo bene la foga della Fiesole al 3-2 di Joaquín in un vecchio (ma non troppo) Fiorentina-Juventus: fu una esplosione di unità colossale. Coinvolgente, ma non quanto il silenzio di ieri. Una condizione che costringeva a entrare in simbiosi con lo stato d’animo collettivo, e a riflettere.

È semplice, e probabilmente semplicistico, osservare che una reazione del genere sarebbe arrivata anche se al posto di Astori ci fossero stati altri. La verità è che in un contesto come quello odierno il capitano rappresentava un genere di sicurezza tanto preziosa quanto sottovalutata. La certezza della serietà, della professionalità, della chiarezza. Tra i pochi fiorentini con cui sono riuscito a scambiare due parole una ragazza ne ha riassunto il valore in quello che credo sia il migliore dei modi: Astori ha sempre detto le cose come stavano, per questo è uno dei pochi che si è meritato il rispetto della città. E se da un lato è vero che l’assenza delle cose tende ad amplificarne la bontà, dall’altro è altrettanto vero che mai come oggi il capitano della Fiorentina era leader sul campo ed esempio al di fuori.

Per quanto possa sembrare retorico, la retorica su Astori persona di spessore non dovrebbe essere considerata retorica. È un gioco di parole che da ormai diverse ore ripeto dentro di me, vista la perdita che è senz’altro umana ben più che tecnica. Significa che sì, tutto questo può sembrare retorica, ma anche che no, uno come lui con la retorica ci ha sempre incastrato poco. E ci incastra poco adesso più che mai. Una foto più di tutte restituisce l’iconicità di Astori in questa Fiorentina: è quella, che lo ritrae durante il ritiro di Meona al centro del nuovo universo fiorentino. L’estate delle cessioni illustri lo ha visto rimanere saldamente al suo posto, e anzi, gli aveva portato sul braccio la fascia con la C. Astori al centro, dicevamo. Lo era nella foto e lo era nel progetto, che si fondava sulla sua leadership morale tanto quanto su quella tecnica di Chiesa. E infatti le responsabilità nelle relazioni comunicative tra inter-squadra ed extra-squadra sono state perlopiù una sua esclusiva.

Ho pensato a lungo anche ad un altro aspetto di questa triste vicenda, che è la sua considerazione da parte del pubblico. Ho pensato che in effetti di persone ne muoiono a migliaia tutti i giorni, e che denigrare i sostenitori del «uno vale uno» sia un vano tentativo di nascondere la realtà. Insomma, pochi altri addii avrebbero radunato centinaia di fiorentini nel loro luogo di culto in un giorno festivo con tanta sincerità. Però se decidono di farlo deve pur esserci un motivo di fondo, e io credo che il motivo di fondo sia strettamente connesso alla qualità della persona. Una serie di banalità: ad Astori fregava ben poco di come apparire o di come non farlo. Viveva di calcio, ma non per il calcio, ed è anche sotto questo profilo che emergeva un tratto di carattere tutto suo. Da Sousa I a Sousa II, fino a Pioli, per non allargare gli orizzonti al passato tra Cagliari e Roma. Il suo percorso di maturazione si era appena concluso, anno più anno meno: era un giocatore definitivo, e tutto sommato ci andava bene così, con i suoi pregi e con i suoi difetti. Non è mai stato il più celebrato, ma è sempre stato tra quelli su cui contare.

fonte rivistaundici.com

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By marcodalmen


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