Gasperini : ”A Bergamo ho trovato la serenità“
Caro Gasperini, lei si sente un rivoluzionario?
«Sicuramente ho avviato una svolta. Ma ho solo seguito le indicazioni del presidente».
E infatti è proprio Percassi che la definisce un rivoluzionario. Cosa le aveva chiesto?
«Un’Atalanta molto legata al settore giovanile e al territorio, simbolo di una città e di una grande provincia. Hanno evocato l’Athletic Bilbao. Ci può stare, anche se le istanze di base sono molto diverse».
Meglio allora parlare di stile Atalanta?
«Sì. L’ho sempre l’ammirato anche prima. Le confesso che dopo Genova volevo fermarmi un po’. Poi ho capito che il destino mio e quello dell’Atalanta erano fatti per unirsi».
Eppure, un girone fa, dopo la sconfitta col Palermo che affronterete domenica, si parlava del suo esonero.
«È stato un avvio difficile. Io pensavo già di lanciare i nostri giovani, ipotizzavo però una transizione soft. Le difficoltà hanno accelerato i tempi e generato la sterzata decisiva».
Una lezione utile per tutti.
«E non solo nel calcio. In Italia si tarpano troppo le ali ai giovani, come se noi seniores non sbagliassimo mai... Forse la generazione dei padri dovrebbe farsi delle domande».
Ma perché spesso nel calcio si preferiscono stranieri scarsi a giovani italiani bravi?
«Interessi economici degli operatori. Si pensa solo al “mordi e fuggi”, non a costruire».
Lei dunque pensa come De Laurentiis che i procuratori siano il cancro del calcio?
«Io so che sono i presidenti a comandare...».
Il calcio italiano deve ripartire dal vostro modello?
«Certamente il nostro esempio può trasmettere coraggio a un settore giovanile vivo e con grandi potenzialità. In Italia tutti giocano a calcio, la base è enorme: tocca a noi valorizzare questo patrimonio».
L’Atalanta valorizza i giovani tanto bene che glieli tolgono subito: si aspettava un Gagliardini così all’Inter?
«Me lo auguravo: ha avuto un’evoluzione fantastica e quando l’ha cercato l’Inter ormai aveva rotto gli argini... Io gli ho detto: “vai e non giocare da ragazzo, abbi poca riverenza, è una piazza che non perdona”. L’ha fatto. Poi, chiaro, per sfondare bisogna avere i grandi mezzi tecnici che ha lui».
Secondo lei può diventare centrocampista totale da 8-10 gol a stagione?
«Sì. Infatti speravo rimanesse altri sei mesi proprio per compiere l’ultimo step: il gol. Ha le caratteristiche per farne tanti».
Dici Gasperini e pensi difesa a tre. Da dove nasce questo suo antico credo?
«Anni fa vidi gli allenamenti dell’Ajax e il loro 3-4-3. Resta un punto di riferimento, ma sui numeri ci si sofferma troppo: il problema è che i giocatori si muovono…»
La svolta vera è stata il successo sul Napoli?
«Sì. Prima non passava nulla dei miei messaggi, poi il fiore è sbocciato».
Quando un allenatore capisce che la scintilla è scoccata?
«Quando i giocatori fanno le cose senza più dirgliele e credono nei vantaggi di un sistema. Noi non abbiamo mai certezze teoriche: quelle le dà solo il campo».
Ha visto Juventus-Inter?
«Molto bella, con due squadre molto forti. Tutto il resto però è negativo. Troppe polemiche, troppo peso all’episodio e non al quadro generale».
E tante lamentele dei giocatori sostituiti. La irritano molto?
«Una volta si diceva fossero sintomo di personalità… Finalmente si è capito che così non va».
Nelle polemiche con gli arbitri cade spesso anche lei...
«Vero. Predico bene e razzolo male. Riconosco il mio difetto, ma il calcio è il nostro Colosseo, tira fuori istinti eccessivi e a volte ti fa sclerare. Lo vedi anche in tribuna con gente insospettabile. Perciò dobbiamo lavorare tutti per ritrovare serenità».
Lei come fa?
«Provo a meditare».
Cioè?
«Cerco mezz’ora al giorno di introspezione: mi guardo da fuori, rallento la mia vita e magari riesco a trovare soluzioni cui non avevo pensato».
Quanto ha meditato sulla disavventura all’Inter?
«Ah, ho avuto tanto tempo».
E la morale della storia è...
«Che, dovesse mai ricapitarmi, farei in un altro modo. Forse non ero pronto. Sa, io non sono mai stato un tecnico normale: le mie idee e il mio modo di allenare sono sempre stati borderline, fuori dal comune. Una fortuna se le cose vanno bene, un problema se vanno male. L’Inter era in una fase difficile, ho un sacco di attenuanti. Ma, considerando com’ero solo, avrei potuto essere diverso».
In che senso?
«Sono stato troppo accomodante, pensavo di potere conquistare l’ambiente strada facendo. Invece dovevo entrare forte, senza compromessi: o spacchi o vieni spaccato».
Il problema era più lo spogliatoio o la proprietà?
«La proprietà. Forse non sono stato persuasivo. La questione della difesa a tre, per esempio: sapevano prima di prendermi come giocavo, no? E poi ho avuto davvero in mano la squadra 15 giorni. Mai visto nessuno durare così poco».
Ha detto che era solo: non è la condizione naturale dell’allenatore?
«Sì, l’allenatore è sempre solo. Per questo deve essere molto chiaro con la proprietà».
Ha più sentito Moratti?
«No».
Mai avuto paura di chiudere lì la carriera?
«Sì, perché quando cadi dall’alto ti fai molto male. Per fortuna c’era Genova...».
La sua seconda casa.
«Al Genoa avevo ottenuto risultati fantastici e avevo molto credito: è stato naturale tornarci. Poi però, visto che si vive di etichette, hanno detto che sapevo allenare solo lì. Ringrazio Bergamo che mi ha sdoganato dal luogo comune».
Sdoganato talmente che la danno già alla Roma la stagione prossima.
«Sinceramente: io qui sto benissimo, sono totalmente dentro il progetto, ho superato anche la saudade del mare...».
Gli allenatori italiani sono davvero i migliori al mondo?
«Sì. Studiamo tanto, forse troppo. L’ambiente ci obbliga a essere più preparati in tutto: tattica, spogliatoio, rapporti».
E l’estero non la tenta?
«Una volta avrei cambiato solo per la Premier League. Ma alla mia età non conta il denaro bensì la qualità di vita e del lavoro in campo, la cosa che amo di più».
Ma, in definitiva, Gasp è uno da tuta o da giacca?
«L’allenatore dev’essere da bosco e da riviera. Scarpe sporche in allenamento, poi in panchina vada come si sente…».
Che giocatore era lei?
«Un centrocampista rapido e tecnico, oggi si direbbe con buoni tempi di inserimento. Ma per arrivare ad altissimi livelli mi mancava una certa fisicità».
Il compagno più forte di sempre?
«Leo Junior».
Il giocatore più forte mai visto?
«Maradona. Ma che epoca di fenomeni era quella!»
Il più forte oggi in serie A?
«Higuain. E in prospettiva Dybala».
La Juve vincerà lo scudetto?
«Sì».
E la Champions?
«Quella che andò in finale due anni fa mi sembrava più solida. Ora vediamo se farà quadrare i cambiamenti tattici».
La sorpresa maggiore di questa Atalanta?
«Il secondo tempo con la Roma: calcio eccezionale. E poi Gomez: era già forte, ora è molto forte. Ho pure pensato di usarlo da centravanti come Mertens, poi è esploso Petagna. Ma il Papu deve fare gol, glielo dico sempre: “stai vicino all’area e vedrai che segni”».
Secondo lei sono troppe 20 squadre in A?
«Io vado oltre: bisognerebbe fare un campionato europeo tra le migliori di ogni Paese e le altre nei campionati nazionali. Così non ha più senso. La disparità economica è enorme, superiore al passato. Pensi un po’: Inter e Juve arrivano, ci tolgono i migliori e si sistemano, noi ci indeboliamo. Come competere? La prima che fa 100 punti e le ultime tre così in basso non sono un bene per nessuno».
L’Atalanta però resiste in trincea: ce la farà ad arrivare in Europa League?
«Noi lì in alto non c’entriamo niente. Però, vinto lo scudetto della salvezza, ci proviamo. La strada è lunga e le avversarie credo si aspettino un nostro calo. E se invece a calare fossero loro?».
fonte corriere.it