06/12/2016 | 04.44
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L’insostenibile pesantezza dell’essere

Quel sabato l’avrebbe dedicato a Charo.

Non amava guardare la partita contro la Vecchia Signora, che ovviamente non chiamava signora, ma la definiva con l’appellativo che la classificava fra coloro che esercitano il mestiere più vecchio del mondo.

Non amava guardare quella partita per superstizione. E perché odiava vedere l’arroganza di certa gente. E perché temeva l’odiosa sottomissione che la sua squadra del cuore, negli ultimi anni, regalava alla detta meretrice. Soprattutto sul suo terreno di gioco.

Per questo aveva deciso di dedicare il suo sabato sera a Charo. Lo meritava sicuramente di più lei che quella partita dal sapore troppo spesso infausto.

Qualcuno l’avrebbe definito un tifoso immeritevole. Lui invece amava definirsi un tifoso e basta. Con le proprie caratteristiche, le proprie fisse, i propri eroi e le proprie fisime.

Quel sabato sera sarebbe stato per Charo. Per la sua pazienza. Per il suo amore. Per la sua ostinazione a rimanere legata ad una relazione senza futuro.

E allora una cena da Fernando, una passeggiata lungo El Paseo de Sarasate e la notte sotto le coperte. Insieme. Oppure sul passo di Roncisvalle, a guardare le stelle e a parlare per sconfiggere la malinconia. Tanto i ragazzi sarebbero stati parcheggiati altrove. Pablo dalla nonna e Xavi, ormai adolescente, aveva chiesto di poter vedere la partita dal Tio e di dormire là. Con la borsa da calcio già pronta, per andare la domenica mattina a giocare all’oratorio di Villava.

El Tio aveva preparato un arroz con verdure e pezzi consistenti di Bonito del Norte. Una buona bottiglia di Marina Alta, tanto ormai Xavi era grandicello ed un paio di bicchieri di buon bianco non gli avrebbero fatto male. Anzi. E poi avrebbe dormito da lui. Sul divano. Con il cane in fondo ai piedi.

La cena scorse via leggera, a differenza della partita.

Se l’arroz, accompagnato dal soave bianco della Costa Blanca, era scivolato via indenne, non lo fu la sconfitta. Seppur meritata.

Una vecchia meretrice a fare la provinciale ed un’Atalanta a specchiarsi fino al momento di accorgersi di essere sotto di due gol.

El Tio, per digerire, soprattutto la sconfitta, tracannò l’Orujo de Hierbas di Vigo, e ne diede un chupito anche a Xavi.

“Non avessimo preso il primo gol con quella papera, magari…”

“Non è stata una papera.”

“E cosa allora?”

“Hai presente i pezzi di ghiaccio che crollano nell’oceano a primavera?”

“Come?”

“Era lì. Doveva solo cadere. Come era già caduto in altri pezzi, qualche partita fa.”

Xavi mise i gomiti sul tavolo, le mani sotto il mento, come per ascoltare meglio.

“Hai visto come pesano i guanti di Sportiello? Non riesce nemmeno ad alzare le mani ad afferrare il pallone. Come sia incatramato nei movimenti e come scotti tutto ciò che gli passa vicino?”

“Ma io credevo fosse un campione.”

“E lo è. Solo che l’hanno incatenato.”

“E chi?”

“La sua ingenuità. La sua sicurezza. La sua giovane età. E degli amici che, magari credendo di fargli del bene, gli hanno fatto del male.”

“Ne uscirà mai?”

“Dipende solo da lui. Ormai nemmeno quegli amici che l’hanno conciato così possono rimediare.”

Xavi stava in silenzio.

El Tio sapeva farsi ascoltare.

Diede anima alla fiamma del camino e gli parlava dandogli le spalle. Affinché si concentrasse sulle parole e non su chi le pronunciava.

“Ai miei tempi, giocava con me nel Villava un ragazzo. Noi amici lo chiamavamo Ernesto. Piedi di velluto, baricentro basso, dribbling secco e fiuto del gol.

Era il più forte di tutti noi.

Poi alcuni amici di suo padre gli dissero che lo volevano al Real. Vennero da Madrid per vederlo. Gli dissero che era solo questione di tempo.”

“E Poi?”

“E poi i suoi scarpini divennero di cemento.

Il suo passo pesante. Il suo dribbling pesante.

La sua anima diventò pesante.

Io lo marcavo in allenamento. Non mi andò mai più via una volta, nemmeno quando il mio ginocchio era gonfio come un melone.”

Xavi era curioso. Aveva capito di chi si trattasse. E sapeva che quel ragazzo poi non andò direttamente al Real, ma esordì nell’Osasuna. Lanciato verso la nazionale, fu fermato solo da un incidente stradale, che ne troncò la carriera.”

“E come ne uscì?”

“La notte prima di una partita, suo nonno lo portò nei boschi sopra Roncisvalle. Dove andava a cacciare. Boschi fitti, senza sentieri. Lo portò con un apecar e lo portò bendato.”

Xavi aveva gli occhi sgranati.

“Era buio. Non c’era la luna. Lo lasciò in mezzo ai boschi e gli disse:

"Questa sveglia suonerà fra due ore. Se sei un uomo e se vuoi essere un campione, rimani qui seduto, bendato ed alleggerisciti l’anima fino a che la sveglia suonerà.

Poi arrangiati. Sappi che la partita inizia alle dieci.”

 

Rodrigo Dìaz

By staff
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