Non ne vale la pena

04-10-2018 14:30 19 C.

Avevo promesso a Charo che l’avrei portata a cena, domenica sera.
Xavi e Pablo potevano stare a casa da soli a vedere le partite della Liga. Ormai sono dei ragazzotti. Quindici e tredici anni. Il tempo vola.
Sarei passato a prenderla verso le sei. Dopo la partita.
Una passeggiata in centro e poi da Rafael.

Le piace tanto andare da Rafael. Le piacciono gli arroces de pescado. Le piace come griglia la verdura. E le piace anche Rafael. Da ragazzina aveva preso una cotta per quel cuoco dalla pelle brunita. Non sono geloso. Guai avere invidia della gioventù altrui.
Ci sarei andato con le migliori intenzioni, a cena con quella donna che sopportava le mie fughe e i miei ritorni più di una Penelope moderna.
Ci sarei andato perché si meritava tutto il mio amore, nonostante ne avessi poco anche per me. Se lo meritava per la sua pazienza. Per la sua perseveranza a tenere la testa fuori dall’acqua.

Ma prima c’era stata la partita.
C’era stata quella sciagurata gara del Franchi, che avevo vissuto sulla costa del mio divano, con la bottiglia di orujo ghiacciato. Svuotata già dopo la stronzata di Chiesa.
La bottiglia, vuota, era finita nel camino. Già acceso, perché l’aria gelida dei Pirenei era già scesa fino a qui.

Dentro al camino, assieme al liquore gagliego, c’era finito anche il libro che stavo leggendo, un romanzo di quart’ordine di uno dei giovani sedicenti scrittori italiani.
Forse avrei dovuto telefonarle. Avrei dovuto dirle che non me la sentivo. Che non stavo bene. Che avevo il mal di testa, che è una scusa che funziona sempre e inibisce qualsiasi chiarimento.
Ma Charo non si meritava questo. Non se lo meritava. Non meritava che la sua serata fosse rovinata da una manica di povera gente.
Allora da Rafael ci siamo andati.

Alla faccia di quel ragazzino piccolo dentro e del suo allenatore piccolo sia dentro che fuori. E della società, che definirla piccola è un complimento.
L’arroz di Rafael era paradisiaco. Cotto al punto giusto. I pezzi di Bonito del Norte davano un sapore unico ed anche le scaglie di queso manchego, opportunamente distribuite, aiutavano ad esaltarne il gusto.

Non fu sufficiente una bottiglia di Cesillas. Rafael ci offrì la seconda.
Charo era contenta. La vedevo felice. Il supermercato non avrebbe chiuso, almeno per un anno ancora e lei non avrebbe perso il lavoro.
I ragazzi crescevano. Xavi a scuola non andava male e a calcio cominciava a fare le cose seriamente. Pablo non dava più di tanto preoccupazioni.

“Ti ringrazio per questa magnifica serata.”

Non la stavo ascoltando. Quasi non l’avevo nemmeno sentita.

“Ti ringrazio, perché ti conosco. Capisco che non era facile per te. Dopo quello che ha fatto quello lì della Fiorentina. Quello con la faccia da scoreggia.”

Saltai sulla sedia.
Charo rideva. Rideva di gusto. Nemmeno lei si aspettava di uscirsene con una frase così.
Abbiamo riso per diversi minuti. Senza parlarci. Soltanto guardandoci negli occhi. Io capivo la sua voglia di evadere da una vita che le aveva dato in cambio niente a fronte di quello che lei aveva sudato. Lei capiva che, nonostante il calcio sia un corollario, avevo lo stomaco rivoltato.

“Non te ne faccio una colpa. Ti capisco. Xavi mi ha fatto vedere le immagini.”

Mi sentivo un po’ a disagio. Quasi come un bambino di fronte ad un adulto. Ma non era così.
Quasi mi vergognavo di avere l’umore inverso per colpa di una partita. Di rovinare un momento felice di una donna per una simulazione.
Ma Charo era più grande di tutto ciò.

“Ognuno, nella vita ha i suoi amori grandi e i suoi amori piccoli. Ma sempre amori sono. E se uno, seppur piccolo che sia, gira storto, non lo si può ignorare.”

Presi le mani di Charo e le baciai. Altro giro di Cesillas.
Non era poi tardi.
Con la macchina fino fuori dalla città. Poi a piedi fino alla cascina del Tio. Tanto il vecchio non va mai a letto prima dell’una.
Mi piace vedere Charo felice.
Camminava e parlava. Con le linee della bocca rivolte verso l’alto e le rughe disegnate in un sorriso che avrei voluto non finisse mai. Anche se l’indomani mattina ne sarebbe rimasto appena un ricordo.
La strinsi forte. Perché non volevo che quella felicità se ne andasse via, come aveva fatto per la maggior parte della sua vita.
Il cane Ernesto ci venne incontro.
El Tio stava già versando i tre bicchieri di Carlos Primero.

“Bella squadra. Inizio duro, ma mi piace. Pazienza.
Per tornare in alto, bisogna sempre partire dal basso.”

Mi disse appena dentro la porta.
Mentre Charo era fuori.
A guardare le stelle.

 

Rodrigo Dìaz

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By Staff di Atalantini.com


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