Ultras, gli altri protagonisti del calcio

11-09-2019 09:09 15 C.

 

Intervista a Sébastien Louis, autore di una bibbia sul movimento ultras.

Quello degli ultras è uno degli argomenti più fraintesi del discorso pubblico in Italia. Il movimento ultras non viene considerato per quello che è: una sottocultura, che agisce quindi con un linguaggio e regole proprie, spesso in opposizione alla cultura egemone. È difficile ascoltare e leggere contenuti rispettosi della complessità di questa sottocultura, anche perché stiamo parlando di un movimento chiuso che non ama raccontare sé stesso, e che vive con la costante paura di essere frainteso.

 Il libro di Sébastien Louis, Ultras. Gli altri protagonisti del calcio (Meltemi), è un lavoro incredibilmente complesso e profondo sulla cultura ultras. Un libro costruito attraverso la bussola del sociologo e quella dello storico, ma che ha beneficiato anche dell’appartenenza dell’autore a questo movimento difficile da descrivere senza viverlo sulla propria pelle in prima persona.

Lo abbiamo intervistato, corredando la chiacchierata con le fotografie di Giovanni Ambrosio, che ha viaggiato in nordafrica per testimoniare l’influenza della cultura ultras italiana in quelle curve. Giovanni e Sébastien curano il progetto Offside, che con mostre, fotografie e saggi vuole raccontare il mondo ultras attraverso un punto di vista rispettoso e originale. Buona lettura!

Il tuo libro è incredibilmente esauriente nella ricostruzione storica e sociale degli Ultras. Come hai lavorato e dove hai trovato tutto quel materiale? 

Ho lavorato usando sia i metodi dello storico che del sociologo. Questo è il secondo libro che scrivo sulla storia degli ultras italiani, a distanza di dieci anni dal primo. Ho approfittato del tempo passato per accumulare materiale, trovare nuove fonti negli archivi, incontrare tanti testimoni e fare un lavoro quindi più completo. Va detto che pur essendo un ricercatore sono un appassionato: mi piace andare allo stadio e vivermi la partita in un certo modo. Per me non è solo un evento sportivo ma molto di più. Un concetto che gli ultras esprimono bene, e da qui nasce il titolo del mio libro [Ultras. Gli altri protagonisti del calcio ndr].

Aver militato nella cultura ultras ti ha aiutato? Come hai fatto a trovare la giusta distanza?

Sono stato ultras dell’ Olympique Marsiglia dal 1994 al 2006 e questo ovviamente mi ha parecchio aiutato. Mi ha aiutato a conoscere questo mondo, so come muovermi dentro, come comportarmi. In più la fama della tifoseria marsigliese, che varca i confini nazionali, era una specie di patente che potevo mostrare agli ultras che incontravo e avere credibilità. Non c’era bisogno che gli spiegassi cosa facevo con loro allo stadio. 

Facendo un dottorato sull’argomento ho comunque dovuto trovare il giusto distacco, e i metodi della storia e della sociologia mi hanno aiutato, rappresentando la bussola del mio lavoro. Il dottorato mi prendeva tempo, era una cosa seria, quindi ho dovuto fare un passo indietro nella mia militanza da stadio, consacrando quasi tutto il mio tempo alla mia ricerca. Ho dovuto fare una scelta. Non potevo più fare l’ultras seriamente, allora ho lasciato la curva del Marsiglia per gli archivi, le biblioteche, le sedi dei gruppi ultras e le curve italiane. 

Come spieghi nel tuo libro, quello degli ultras italiani è diventato un modello rispettato e imitato nel mondo anche da altre tifoserie. Perché però si è creato proprio in Italia, un movimento codificato in senso quasi militare?

I giovani italiani hanno saputo creare un modello di tifo che oggi è fonte d’ispirazione dall’Indonesia al Portogallo, dal Marocco alla Svezia, dalla Palestina al Canada. La genialità della prima generazione di ultras in Italia e di quelle dopo, è di avere saputo trasformare quello che poteva sembrare una semplice moda in una vera e propria sottocultura giovanile. 

Ci sono diverse cose che spiegano il perché: innanzitutto un periodo storico particolare, in cui nasce il concetto di adolescenza, per la prima volta i giovani italiani hanno soldi e tempo libero; bisogna poi considerare il contesto particolare dell’epoca, perché l’Italia era un paese conservatore e non c’era spazio per sottoculture ribelli come in Inghilterra [Teddy Boys, Rude Boys, Mods e altre ndr]. Con l’esplosione della passione per il calcio, e la strutturazione dei tifosi in club, era tutto pronto per creare una nuova forma di tifo. Gli anni di tensione politica e l’antagonismo daranno un’altra direzione a questo movimento. Bisogna poi fare una considerazione generale, e cioè che fa parte del DNA italiano sapere trasformare una cosa all’apparenza banale, come può essere il tifo da stadio, in un’esplosione di colori e creatività.

Da quello che descrivi, la violenza nella cultura ultras è una sorta di moneta: un valore da spendere socialmente nelle curve, ad esempio per salire nelle gerarchie. Perché esiste un legame privilegiato tra cultura ultras e violenza?

Come spiego nel quarto capitolo del libro, spettacolo sportivo e comportamenti violenti sono legati sin dagli albori del calcio, in Inghilterra o in Italia. Le fonti storiche lo testimoniano attraverso diversi episodi cruenti. Il calcio per la sua stessa essenza scatena da sempre eccessi da parte del pubblico. In Italia, fino agli anni ’10 c’era pochissimo pubblico negli stadi, il primo torneo ufficiale, nel 1898, si è giocato di fronte a poche centinaia di spettatori, eppure già nel 1905 si assiste al primo incidente: un’invasione di campo che interrompe la partita Juventus-Genoa. I primi scontri tra spettatori si verificano a causa di alcune scommesse sportive.

La cultura ultras, fino al 1973 non è stata così violenta, ma la prima generazione di curvaioli crescerà in un Italia sull’orlo dalla guerra civile, tra bombe e scontri tra fazione opposto. Un contesto che genera una cultura molto forte negli stadi. Va sempre ricordato che la cultura ultras è una sottocultura giovanile, e dobbiamo allora considerare il “ruolo sociale” della violenza, che in tantissime società rappresenta una specie di rito di passaggio per diventare adulti. Poi c’è la fascinazione per la violenza e il fatto che può attirare alcuni giovani maschi. Anche se i contrasti sono spesso spettacolari, dobbiamo capire che si tratta di una specie di “gioco”, di rito di cui gli ultras si nutrono volentieri. La maggiore parte di questa violenza è simbolica. 

 

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Tetouan, Marocco, città del nord, non lontana dalle montagne del Riff. Seppure in area di influenza spagnola, i gruppi locali si chiamano Matadores e Siempre Paloma, questi ultimi non rinunciano all’uso di uno slogan in italiano, il classico motto contro il calcio moderno.
 

Nella cultura ultras esiste un filone del discorso che addirittura sottrae importanza al calcio (penso al coro “A noi della partita non ce ne frega un **zzo”, agli adesivi degli irriducibili “Quelli che il calcio te lo danno in faccia” o a vecchie dichiarazioni in un documentario sui CUCS in cui gli ultras si vantavano di dare le spalle al campo). Che tipo di relazione c’è tra ultras e calcio giocato?

Sono provocazioni, che esistono in qualsiasi cultura giovanile. Non possiamo pensare che gli ultras non sono amanti del calcio giocato. L’immensa maggioranza degli ultras ama il calcio, lo pratica o lo ha praticato, sono innamorati della loro squadra e questa passione li porta a fare cose spettacolari e soprattutto a spendersi in sacrifici incredibili: attraversare tutto lo stivale per sostenere i loro colori, spendere una cifra importante per pura passione (le trasferte costano), o contestare un dirigente o un giocatore che non onora il blasone della squadra. 

Non dimentichiamoci però che gli ultras hanno anche trasformato lo spettacolo negli stadi. Prima del loro arrivo l’unico spettacolo era limitato al campo, da cinque decenni invece lo spettacolo è anche sugli spalti. Gli ultras giocano una partita nella partita, devono essere i migliori sugli spalti, anche a costo di non vedere quasi niente degli incontri sacrificandosi (come il capo-ultras) per il tifo. Alcuni diventano ultras del loro gruppo prima ancora che della loro squadra, possiamo citare il famoso slogan delle Brigate Gialloblù veronesi: “Prima tifosi delle Brigate, poi dell’Hellas”. 

Dietro questa retorica dobbiamo capire che i mutamenti nel calcio, l’“industrializzazione” di questo sport è anche responsabile di questo, cioè il gruppo ultras è più legato alla città e ai colori della maglia che alle società o ai giocatori. In ogni caso, anche in un calcio cambiato come quello di oggi, con tutta la repressione che c’è, gli ultras restano. Questo perché rimangono dei veri drogati di calcio.

Un aspetto della sottocultura ultras italiana poco reclamizzato ma centrale è quello della creatività. Quali sono gli episodi e le espressioni che ti sono piaciute di più, che hai trovato più interessanti, raccogliendo il materiale per il libro?

Sono tante le cose che mi piacciono. Andare sul campo e vedere una curva cantare e tifare in maniera spettacolare mi fa sempre venire i brividi. Può sembrare ridicolo, ma ci dimentichiamo che è una cosa totalmente gratuita, dove la gente mette dell’energia per avere niente in cambio tranne emozioni. In una società come la nostra, dove tutto o quasi ha un valore economico, dove ci sono applicazioni per trovare amore o sesso, per trovare amici o compagni di viaggio, questo è veramente geniale. 

Il gruppo ultras, la curva e la tifoseria sono antidoti all’individualismo promosso dall’economia liberale. Poi, in quale altro luogo della società si può incontrare una tale diversità di personaggi? Dall’avvocato al delinquente, dal padre di famiglia alla studentessa, dal compagno al camerata… Ho incontrato tanta gente diversa ed è stato bello, mi ha aperto lo spirito e la mente. Poi potrei menzionare altre piccole cose, come il fatto di rintracciare e ritrovare alcuni dei pionieri di questo movimento, parlo della prima generazione di ultras, come a Genova, sponda blucerchiata, e a Milano, sponda rossonera. Questa è stata un’emozione forte. C’è stato poi un piacere più di ricerca. Trovare nuovi documenti in archivio o nelle prime riviste, tipo Forza Milan, o una foto in bianconero, passando ore e ore all’archivio del Museo del Calcio; passare le mie settimane di ferie in Italia solo per trovare documenti, anche all’apparenza insignificanti, come una velina della questura all’archivio storico di Milano. È un sentimento che forse solo un ricercatore può capire. 

Gli ultras fanno spesso riferimento al concetto di mentalità: a cosa ci si riferisce?

La cosiddetta “mentalità ultras” è niente di più che la filosofia di questo movimento. Come spiego nel libro, le norme di questa cultura lasciano ampio spazio a una visione romanzata e mitizzata dei codici che regolano il movimento. Tutti i movimenti hanno delle “regole”, ma come sappiamo benissimo in sociologia, queste variano sempre seguendo la trasformazione sociale. E dunque anche il movimento ultras ha creato una serie di regole che sono, come teorizzano gli storici Eric Hobsbawm e Terence Ranger, una “tradizione inventata”. Le pratiche comunitarie degli ultras e la loro “filosofia” sono frutto di una creazione recente legata agli interessi di un passato prossimo e alle strategie ad esso collegate. 

C’è un altro piano del discorso. L’individualismo crescente delle nostre società ha cambiato anche lo stadio, che è sempre uno specchio deformante della nostra società. Dunque, le tifoserie si sono divise e ogni gruppo in una curva pensava di essere il più adatto a sostenere la squadra di calcio. Ogni fazione è convinta di essere la più fedele ai valori originari, poi la trasformazione del calcio alla fine del 20° secolo ha anche toccato gli ultras, tra quelli “vecchia maniera” che erano diventati dei super-club, e una nuova generazione più oltranzista. Il frutto di questo paradosso è la creazione della cosiddetta “Mentalità ultras”, creata dai più giovani per contestare i vecchi facendo riferimento a “vecchi valori” che sono però in gran parte inventati. 

La repressione negli stadi italiani è aumentata proprio nel momento in cui nel resto del paese diminuiva. Come te lo spieghi?

Dobbiamo analizzare due periodi. Il primo va dalla nascita dei primi gruppi ultras tra il 1967 e il 1979, che coincide con la morte di Vincenzo Paparelli. Quelli sono gli anni più violenti nella storia d’Italia, che conosce un conflitto di bassa intensità a livello sociale e politico. Le prime scazzottate dei gruppi ultras sono un epifenomeno per i responsabili dell’ordine pubblico. Sono molto più preoccupati dalla contestazione sociale e dalle manifestazioni, non capiscono i cambiamenti che si stanno verificando sugli spalti. Poi, con la morte per accidente del povero tifoso laziale, durante il derby Roma-Lazio del 28 ottobre 1979, c’è stata la prima forma di repressione. Ma non è stata davvero pensata, piuttosto improvvisata. Durante gli anni ’80 l’ultras vede trasformata la sua immagine, in parte per gli episodi gravi che si verificano, in parte anche per la demonizzazione operata dalla stampa. La figura del giovane tifoso diventa quella del “folk devil” in una società che cambia in fretta, passando dall’antagonismo politico alla cultura dei consumi. I governi sapranno utilizzare l’immagine negativa dell’ultras per sperimentare una nuova forma di controllo sociale. 

La Digos avrà un interesse sempre maggiore verso gli ultras: in seguito, i mezzi e i fondi impiegati durante gli anni di piombo saranno progressivamente utilizzati attorno agli stadi e sugli spalti, non più nelle manifestazioni di piazza. 

 

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A Casablanca, prima di entrare allo stadio per quello che viene definito il piccolo derby, Widad contro un piccolo club cittadino senza tifosi, un membro dei Winners mostra la sciarpa che esplicita eterna fedeltà al movimento ultras.
 
Nel libro citi una ricerca che cercava di dimostrare come all’interno dello stadio si siano sperimentate forme di controllo e repressione che poi ci siamo ritrovati nella società, quali sono? Credi che lo stadio sia ancora un laboratorio di sperimentazione di tecniche repressive?
Chiaramente, i fatti lo dimostrano. Come ho spiegato prima citando la figura del “folk devil”, che si crea durante gli anni ’80, il soggetto dell’ultras diventa dunque una nuova espressione da reprimere. Questa politica avrà pure un percorso anche legislativo e inizierà il 10 dicembre 1989, con la legge 401, che dispone il divieto d’accesso agli stadi. Fino ad oggi questa legge è stata modificata nove volte, sia dai governi di centro-sinistra che di centro-destra. Qualche settimane fa, il Ministro dell’Interno Salvini, con il suo nuovo decreto sicurezza bis, ha allungato la durata del Daspo fino a dieci anni e rende permanente la disciplina d’arresto differito (un mostro giuridico) per determinati reati. 

Lo stadio, come spiego nel dettaglio in un capitolo intero dedicato alla questione, è dunque diventato un nuovo laboratorio della repressione. Non solo gli ultras sono vittime di questa politica, ma anche i normali tifosi, che sono schedati con il biglietto nominale e poi con la tessera del tifoso. L’ultras, come tra l’altro alcune figure sociali come l’immigrato, diventa dunque una cavia da laboratorio per le nuove politiche repressive che poi si applicano a altri soggetti. Si può notare oggi che la legge 48 del 18 aprile 2017 ha dato ai sindaci il potere di vietare l’ingresso ad alcune zone della città a persone ritenute pericolose, istituendo un Daspo urbano. Una cosa profetizzata da un vecchio striscione esposto da una gran parte dei gruppi ultras nell’ottobre del 2001: “Leggi speciali: oggi per gli ultras, domani in tutta la città”. 

Una delle dinamiche fondamentali all’interno degli stadi è quella della relazione amico-nemico, eppure mentre le rivalità continuano a venir fuori i gemellaggi scompaiono. Come ti spieghi che i gemellaggi sono diventati sempre più rari?

I gemellaggi ci sono ancora, ma è vero che si sono trasformati. Il vecchio gemellaggio di una volta che univa una tifoseria con un’altra è più raro. Ora ci sono più amicizie tra gruppi, oppure tra una tifoseria italiana e un gruppo straniero. 

Questo è anche causato dall’individualismo delle nostre società che si riflette nelle tifoserie, che non sono più unite come prima. Il gemellaggio, comunque, c’è ancora ed è sentito, basta pensare a Bari-Salernitana, Padova-Palermo, Parma-Sampdoria, il triangolare Cremonese-Reggiana-Vicenza. Forse ce ne sono meno di prima ma sono molto più sentiti. Oggi i gruppi gemellati non solo vanno a sostenere i colori amici ogni tanto, ma sono anche presenti per gli eventi extra-stadio, come i memorial, un torneo di calcio, una festa del gruppo… I motivi d’incontro sono più numerosi dunque. Infine, da vari decenni esiste il gemellaggio con una tifoseria straniera. 

Il primo in assoluto fu quello tra le Brigate Gialloblù del Hellas Verona e gli hooligans del Chelsea nel lontano 1976, ma in quell’epoca ce n’erano pochissimi. Uno molto vecchio e duraturo è quello tra Ultras Tito Cucchiaroni della Sampdoria e il Commando Ultrà del Marsiglia che risale alla fine degli anni 1980. Ma da vent’anni, con la globalizzazione del tifo, e grazie sia ad internet che ai voli low-cost, si possono vedere tante amicizie e gemellaggi che possono sembrare strani: Curva Nord 12 Palermo e Inferno Pflaz del Kaiserslautern, gli ultras del Lokomotiv Plovdiv con la Curva A del Napoli. 

Parliamo di un’altra cosa cambiata nel tempo. Le tifoserie organizzate negli anni ’70 si sono strutturate attorno alle influenze politiche dell’estrema destra e dell’estrema sinistra. Perché col tempo sono rimaste maggiormente le influenze di destra mentre i gruppi dichiaratamente di sinistra sono diventati pochi?

La politica ha giocato un grande ruolo nella costituzione del movimento ultras. Quando dico “politica” non intendo l’ideologia ma le pratiche. Ho scritto parecchio sul rapporto tra ultras e politica, ed è una domanda complessa. Tra il 1967 e il 1971 quando si costituiscono nelle metropoli del Nord-Italia i primi gruppi ultras, il contesto politico è effervescente. Lungo tutti gli anni ’70, questa prima generazione di ultras sarà impregnata di questo mito del militante politico violente e deciso. È interessante sapere che fino al 1975, nella stampa italiana, il termine ultras indica gli estremisti di una causa politica e non i curvaioli. I giovani italiani dell’epoca erano molto più orientati su posizioni di sinistra rispetto ad oggi, e dunque era inevitabile che all’epoca la maggiore parte dei riferimenti erano di sinistra nelle curve. Insisto però che non c’era una strategia dei partiti extraparlamentari per fare propaganda nelle curve. Gli ultras volevano provocare usando simboli e ideologie decise, hardcore. 

Alla fine degli anni 1980, quando c’è un ritorno dei simboli politici nelle curve italiane, la società è decisamente cambiata. Il paese si confronta per la prima volta con l’immigrazione, un fenomeno nuovo per gli italiani. Così il discorso xenofobo conosce un certo successo nella sfera pubblica. Le curve diventano un terreno per la diffusione di idee neofasciste. Gli ultras sono più attratti da un’ideologia che propone l’appartenenza a una formazione, l’essere pronti a battersi per essa e che ripiega su una visione binaria della società. Il modello del gruppo di estrema destra è affascinante perché propone un’esaltazione della violenza e del campanilismo nonché una ribellione contro il “politicamente corretto”. 

Alcune organizzazioni, come il Fronte della Gioventù – al tempo – coglie perfettamente la permeabilità che esisteva tra le sue sezioni e le curve degli stadi. Poi è stata Forza Nuova a fare proselitismo tramite le curve. Bisogna aspettare la fondazione delle Brigate Autonome Livornesi nel 1999, con una visione più estrema dell’essere ultras di sinistra per vedere rinascere il modello ultras-compagno. Ma è una visione più forte, ad esempio hanno messo Stalin come logo del gruppo – un segnale significativo di questa svolta. 

 

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Siamo a Kenitra, città di provincia a pochi chilometri da Rabat. La squadra è in seconda divisione e la cultura ultras si diffonde a macchia d’olio e affascina anche quanti, per età , non sono ancora membri attivi. Alla fine della partita, un trio di ragazzi mostra fiero uno stendardo col quale hanno partecipato alla complessa coreografia durante la partita.
 
Negli ultimi anni si va affermando sempre di più lo stile casual, fondato su piccoli gruppi esclusivi che lavorano come cani sciolti. Lo scioglimento delle grandi tifoserie e la loro atomizzazione in questi gruppi rispecchia secondo te i cambiamenti sociali o risponde a dinamiche autonome?
Ci sono due dinamiche, la prima come lo dice la tua domanda, è sempre questo specchio della società, che non è più unita e che valorizza l’individualismo. La fine dei gruppi storici tra il 20° e il 21° secolo è stato un colpo duro al movimento ultras. Essere casual, poi, permette ai ragazzi di scalare velocemente la gerarchia della curva. In un gruppo ultras tradizionale serve tempo per avere un ruolo ed essere riconosciuto, lì conta il collettivo non l’individuo. Essere casual invece permette ad alcuni ragazzi di farsi notare facilmente. Nel epoca dei social è un meccanismo perfetto. Poi, è il paradosso del fatto di essere casual allo stadio, è che si riconoscono molto velocemente per gli ultras o per la controparte, cioè la polizia. 

Ma ci sono anche altri fattori che spiegano questa tendenza, la prima è che la repressione è tale che i gruppi storici sono le prime vittime della legge. In questo senso è più facile essere casual per tentare alcune azioni che in un gruppo. Seconda cosa, da sempre, per gli ultras italiani, l’Inghilterra è stata la patria del tifo, un vero modello. I casual sono nati in Inghilterra alla fine degli anni ’70 a Liverpool e poi si sono diffusi in tutta l’isola, e sono stati ripresi alla fine degli anni ’90 da pochi ultras italiani, per poi conoscere un successo incredibile, sia a causa di internet che di vari film (Football Factory su tutti). 

Ma in Italia, ci sono pochissimi casual all’inglese, perché hanno stendardi e qua notiamo tutto il genio ultras italiano che riemerge nelle loro pratiche e canti. Poi c’è da dire che siamo in Italia, il paese della moda, gli italiani hanno uno stile unico e geniale, quindi era facile avesse successo una moda basata sui capi d’abbigliamento belli e costosi! 

Le logiche commerciali del calcio sono davvero inconciliabili con la sottocultura ultras oppure può esistere un livello in cui i due interessi vadano insieme (penso all’esempio tedesco, dove gli ultras rappresentano una parte fondamentale dello spettacolo televisivo)?

Dipende come ognuno le interpreta e dal paese. In Indonesia, in Nord Africa, dove lavoro sul tifo locale, vedo che possono andare insieme. A volte anche nei Balcani. Il caso della Germania è molto interessante, perché alla fine le stesse autorità hanno capito che la gente non va allo stadio solo per la partita ma per uno spettacolo globale e dunque gli ultras sono veramente tra i più “liberi” dell’Europa dell’ovest. Non significa che non ci sia repressione, ma che non vengono bloccati con regole assurde per una coreografia o trasferte vietate. 

Di sicuro nella parte ovest dell’Europa, nei massimi campionati, è sempre più difficile fare l’ultras nelle massime serie, perché il calcio professionale non è uno sport, ma un’industria dell’intrattenimento. È un settore con un fatturato enorme, la contestazione non è accettata e gli ultras si devono adeguare. Mi permetto di citare uno dei responsabili delle Teste Quadre della Reggiana, che ho intervistato nel mio libro: «Probabilmente, in futuro, se vorrai andare allo stadio, se vorrai la tua bandiera, la tua domenica, la tua gradinata, dovrai adeguarti alle regole che ti imporranno. E adeguarsi per un ultras significa morire». 

fonte ultimouomo.com

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By marcodalmen


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