Come figli

23-03-2019 04:44 4 C.

Ivana, con l’accento sulla i.

Si pronuncia così il nome della ragazza dall’altra parte del bancone della reception.
Viso bellissimo, forme forse un po’ troppo generose, ma un sorriso da copertina. Mi ricorda molto i lineamenti di Charo da giovane, quando era ancora una ragazza felice.

Zagabria è una città che mi fa sempre sentire a mio agio. Nonostante per un navarro incallito come me, seppur sempre in giro per l’Europa, non sia la latitudine migliore per sentirsi come a casa. Ma a Zagabria mi muovo con insolita disinvoltura.
Forse per questo mi comporto come un giovanotto con questa prorompente ragazza, che sta volentieri al gioco, nonostante le mie basette bianche e le rughe ben marcate.

Esco per una cena veloce e rientro che lei è ancora in servizio.
Le differenze fra quando sono uscito e quando sono rientrato sono che, alla televisione dietro la reception, danno la partita e che sulla poltrocina lì di fronte c’è un signore con il naso a punta e una certa insofferenza alla mia voglia di fare il cascamorto con la sua conterranea.
E’ troppo distante. Non vedo il risultato. Chiedo e mi dicono che stanno pareggiando. Croazia e Azerbaijan sono sul uno a uno. Me lo dice l’uomo con il naso come una spada di Toledo.
Allora, senza pensarci, mi esce una domanda spontanea.

“Gioca Pasalic?”

“Sì.”
Mi risponde immediatamente l’uomo.

“No!”
Corregge la ragazza, dimostrando una certa competenza in materia di calcio.

“Hai ragione. Avevo pensato a Perisic.”

“Ho chiesto di Pasalic. Non Perisic. Stessi colori, ma non per me.”

A metà fra lo scherzoso ed il serio.
La ragazza ha preso la parte scherzosa, l’uomo non so. Ma me lo immagino.

“Perché chiedi di Pasalic?”

La domanda ha un senso. Cosa c’entra uno spagnolo del nord con Pasalic?

Allora le spiego la mia passione per l’Atalanta. E tutta la lunga storia.

Come fa un nonno con la nipotina o come fa un uomo maturo per impressionare una donna giovane.

Ma la mia spiegazione e la mia storia non sono sufficienti per sciogliere quella domanda. Non tanto per lei, che mi guarda estasiata, ma per me.

Salgo in camera con quella domanda incastrata per traverso. E mi scopro sdraiato sul letto a vedere una partita fra due nazionali che non mi può destare alcun interesse particolare.

E mi scopro che la sto guardando solo con la speranza di vedere entrare in campo Pasalic.

Forse perché noi atalantini, o meglio, molti fra noi atalantini considerano i giocatori neroazzurri come figli. E si sa, i figli sono tutti belli e tutti bravi.

Un tempo pensavo che questo amore materno per i giocatori della propria squadra del cuore fosse un valore che mi aveva insegnato El Tio.

Lui è un uomo che ha vissuto un tempo differente, dove il valore di certi sentimenti erano un bagaglio e non un peso.

Credevo che fosse grazie a lui avevo imparato ad amare ogni giocatore, sia il fuoriclasse che il portatore d’acqua, allo stesso modo. Che mettesse la palla nel sette o che svirgolasse un passaggio in tribuna.

Magari con un affetto più generoso per quest’ultimo.

Invece, forse, è una prerogativa di chi tifa Atalanta. Che è differente tifare Real, Barca, Juve o Inter.

Passano i minuti e la partita scivola verso la fine.

In mezzo, la prodezza di Kramaric per il due a uno dei croati.

Pasalic non è entrato in campo. Me ne rammarico.

Ma, in fondo, sono felice di aver aspettato fino alla fine.

Perché i nostri, in fondo, sono come dei figli.

 

Rodrigo Dìaz

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By Staff di Atalantini.com


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