PASSAGGIO A SARAJEVO

05-08-2018 04:44 15 C.

Sarajevo non è molto bella. E’ una città che scivola giù dalle colline a destra e a sinistra e s’infila nella valle larga poco più di una strada a doppia corsia fino a schiacciarsi in un bacino a semicerchio.

Ma, in fondo, è una città della quale non si può ignorare l’esistenza.

Assieme a Gerusalemme, è l’unica città al mondo che in una sola piazza vede affacciate le cattedrali delle tre grandi religioni monoteiste.

Sarajevo, alla fine, è una lunga strada, larga come una lama. Non ha una forma o un perimetro, ma è entrata prepotentemente nella storia dell’Europa. Anzi, è sempre stata protagonista della storia d’Europa, nonostante si trovi là in fondo, fra le montagne, apparentemente difficile da raggiungere.

Del ventesimo secolo, Sarajevo ha aperto e chiuso in battenti.

Alle 10,30 del 28 luglio 1914 a Sarajevo venivano assassinati l’ arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e sua moglie. Questo fu il “casus belli” che diede il via alla prima guerra mondiale. La prima delle grandi tragedie del secolo.

La mattina del 29 febbraio 1996 cessò l’assedio iniziato il 5 aprile del 1992, il più lungo della guerra dei Balcani, che fu l’ultima delle tragedie del secolo.

A Charo ho detto che sarei andato laggiù per lavoro. In parte era vero. Ma El Tio aveva capito che ci andavo per la partita.

Non ero andato a Lione, nemmeno ad Liverpool o a Limassol. E neanche a Dortmund. Ma a Sarajevo non potevo mancare.

Mico è di Sarajevo, ma vive e lavora a Zenica, dove dirige una piccola fabbrica. E’ bravo, Mico. Seppur ancora relativamente giovane, ha già fatto una buona carriera professionale. Ha due bambini, Mico. Due gemelli, maschi. Anche Mirhela, sua moglie, è di Sarajevo. E’ una donna d’oro. Molto simpatica ed intelligente.

Ha insistito che andassi con lui a vedere la partita. Non c’è voluto molto per convincermi. Mi ha offerto anche il biglietto.

Sono arrivato in aeroporto a fine mattinata. Taxi e subito in albergo. Il Colors Inn è piccolo, ma confortevole. Marija è croata. Ormai mi conosce e mi accoglie alla reception con il suo piacevole sorriso.

Da Zenica a Sarajevo ci tiene meno di un’ora Mico. L’unica autostrada di Bosnia tenta di connettere le due città.

Mi passa a prendere e allo stadio ci andiamo a piedi. Venticinque minuti, non di più.

E’ un po’ stanco, Mico, che la sua città sia solo commiserata come vittima dell’atrocità della guerra.

Desidererebbe che fosse ricordata per le olimpiadi invernali dell’84, aperte e chiuse nello stadio dove stiamo andando. Oppure per il Sarajevo Film Festival. O per gli sforzi per uscire dalla melma dei decenni di socialismo e riproporsi come centro culturale di respiro continentale.

“O magari per aver eliminato l’Atalanta.”

Mi dice sorridendo.

“E basta commiserazioni vittimistiche, un po’ di sano protagonismo”.

Dice sicuro di quello in cui crede.

L’aria è satura dei profumi della partita. A suo modo importante. Vitale. Il profumo di un’impresa per loro, il profumo di uno scampato pericolo per noi.

Due premi diversi. Il calcio è bello anche per questo. Perché una partita può riservare soddisfazioni differenti, premi differenti, sensazioni differenti.

Lo stadio è pieno. Come fosse una finale. L’aria palpita e Mico ha uno sguardo teso.

Siedo in tribuna, in mezzo ai tifosi di casa. In pochi minuti tutti capiscono che non sono dei loro. Non c’è nessuno problema, mi ignorano.

Si respira quel profumo spesso di atmosfera balcanica. Un profumo che si percepisce solo dopo averlo sperimentato lentamente. Non è facile da cogliere, ci vuole pazienza e frequentazione. Ma poi, sviluppa un piacere dal retrogusto inconfondibile.

La partita non ha storia. Forse non ne ha mai avuta. Nemmeno all’andata. Ed i trentamila in tenuta granata lo hanno capito. Forse fin dall’andata.

E continuano a tifare. Nonostante la pioggia. Nonostante i gol a grappolo. Nonostante la supremazia di piedi e di testa dei nostri.

Me lo aveva detto El Tio di stare tranquillo.

“Facile facile.”

Mi aveva confessato prima che partissi. Piegato a curare le piantine di pomodoro, senza nemmeno guardarmi.

“Easy. Too easy.”

Sono state le prime parole di Mico, mentre tornavamo verso l’albergo.

“Un bacione a Elis e Ivan. E un abbraccio forte a Mirhela.”

Salgo in camera.

Una telefonata a Charo. So che l’aspetta. Anche se è tardi. Anche se è stanca. Anche se Xavier e Pablo dormono.

Gliela devo.

Domani mi fermerò qui. Due appuntamenti. Due clienti di vecchia data.

E a loro dirò che non sono venuto per loro.

Sono venuto per la partita.

 

Rodrigo Dìaz

Bookmark (0)
ClosePlease loginn
0 0 votes
Article Rating

By Staff di Atalantini.com


CONDIVIDI SU
Accedi


Iscrviti
Notifica di
15 Commenti
Nuovi
Vecchi
Inline Feedbacks
View all comments

WP2Social Auto Publish Powered By : XYZScripts.com
15
0
Would love your thoughts, please comment.x